LEGALITA’ E’ LIBERTA’

Il termine legalità racchiude in sé molte definizioni, tanto da risultare, talvolta, complicato comprenderne l’essenza. Infatti, mentre “legale” significa conforme alla legge, “legalità” indica qualcosa di più profondo.

Essa si fonda su due aspetti fondamentali: innanzitutto quello dell’agire nella legalità, rispettando le leggi in vigore, e poi quello del principio di legalità, secondo il quale nessuno può essere punito per qualcosa che non sia giudicato come reato dalla legge. Potremmo quindi definirla come tutto ciò che ha per oggetto le regole della vita sociale, i valori civili e l’esercizio dei diritti e dei doveri di ogni cittadino.

Sin dalla nascita il bambino comincia ad interiorizzare tutto questo, dapprima all’interno della famiglia, poi nella scuola e nella società. Per un giovane studente, legalità potrebbe voler dire semplicemente non sporcare il banco o non imbrattare le pareti, perché bisogna avere rispetto per tutto ciò che abbiamo a nostra disposizione e che può esserci utile. Crescendo, però, può risultare talvolta complicato per alcuni trovarsi di fronte un mondo fatto di regole e norme da dover rispettare, soprattutto in una società contemporanea come la nostra in cui gli stimoli e le tentazioni sono all’ordine del giorno. Per combattere la sensazione di smarrimento, è fondamentale, allora, individuare dei modelli in cui potersi identificare, uomini che hanno lottato tutta la vita per difendere quello in cui credevano.

“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” diceva il giudice Paolo Borsellino. È proprio il coraggio che ci dona la forza di combattere per i nostri ideali, senza abbassare mai la testa di fronte a chi è disposto ad usare qualunque mezzo pur di ottenere un proprio tornaconto.

Tra i più grandi esempi troviamo quello di un giovane giudice siciliano, impegnato nell’Azione Cattolica, che ha dedicato la sua vita alla lotta contro l’illegalità. Rosario Livatino nacque a Canicattì il 3 ottobre 1952. Conseguì la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1975, a 22 anni, con il massimo dei voti e la lode. Nel 1978, a 26 anni, entrò in magistratura. Dopo un primo periodo presso il Tribunale di Caltanissetta, nel 1979 passò al Tribunale di Agrigento come Sostituto Procuratore della Repubblica. Qui si occupò delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche di quella che poi, negli anni ’90, sarebbe scoppiata come la “tangentopoli siciliana”. Fu proprio Rosario Livatino, assieme ad altri colleghi, ad interrogare per primo un Ministro dello Stato.

Che Livatino fosse un cristiano tutto d’un pezzo è fuori da ogni dubbio. Nella sua agenda del 1978, ad esempio, si legge un’invocazione che suona come consacrazione di una vita intera: “Ho prestato giuramento: sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione, che i miei genitori mi hanno impartito, esige”.

Fede e giustizia, come spiegò in una conferenza tenuta a Canicattì nel 1986, sono due realtà “continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. Nel corso della stessa conferenza specificò: “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge”. Su questo aspetto dichiarava inoltre: “Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere “giusti”, anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia. Egli ha, invece, elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano”. Infine, rispetto al ruolo del magistrato affermava: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”. Dunque Rosario Livatino era un giudice per il quale la ricerca e l’applicazione della giustizia non potevano essere disgiunte dalla fede.

Per la profonda conoscenza che aveva del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli venivano affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firmava sentenze su sentenze: era entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra. Rosario Livatino fu ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990, lungo la SS640 Agrigento-Caltanissetta, mentre con la sua auto si recava al lavoro. Il racconto dei suoi ultimi istanti di vita, con il disperato tentativo di sfuggire agli assassini che lo tallonavano e lo uccisero, descrive un’esecuzione spietata, con la quale si consumò quello che a molti parve da subito un martirio consumato in odio alla giustizia e alla fede incarnati in quel giovane magistrato, indifeso di fronte alle pistole, ma forte e saldo nei suoi convincimenti morali ed etici, improntati sulla fede in Cristo.

Nella messa di commiato, il suo Vescovo lo descrisse come un giovane “impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’Eucaristia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso”. Il Papa San Giovanni Paolo II, il 9 maggio 1993, in occasione della sua visita in Sicilia, dopo aver incontrato gli anziani genitori del giovane giudice, dirà degli uccisi dalla mafia: “Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede”. Quel giorno, che sarebbe passato alla storia come quello dell’anatema contro i mafiosi, le parole del Santo Padre segnarono l’inizio di un’epoca nuova, nel cui cielo brilla la figura di Rosario Livatino, che ci ricorda quale sia la meta a cui tendere: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”.

Oggi più che mai esempi come quello di questo giovane giudice sono un faro per le sfide che siamo chiamati ad affrontare, a partire dalla lotta per una società più giusta e democratica, in cui tutti siano uguali e abbiano gli stessi diritti e doveri. Ma non solo il carabiniere, il poliziotto o la guardia giurata, che fanno rispettare le regole… legalità è ognuno di noi con la sua coscienza critica, con la sua capacità di distinguere e di essere coerente, consapevole delle proprie scelte, prese autonomamente e senza condizionamenti, condannando fermamente ogni forma di ingiustizia.

Perché legalità è responsabilità, anzi corresponsabilità. Facciamo sì che essa sia un’opportunità in più per dare senso al nostro futuro!